ovvero: "Maestro, perchè devo fare così??"

Perché scrivo questa digressione? Perché l’Aikido è profondo come mare e vasto come il cielo e ci invita, attraverso i maestri, a praticare e capire continuamente qualcosa in più. La pratica settimanale è solo una piccola parte dell’impegno.
Nell’ultima lezione a cui ho potuto partecipare, poi il mio muscolo piriforme ha deciso di comprimere il nervo sciatico costringendomi a qualche giorno di immobilità, Roberto Martucci Sensei stava spiegando l’importanza di attaccare con decisione e esprimendo un certo kime ( trad. decisione)
Avendo la mia mente una attitudine fortemente speculativa ed essendo propenso sempre al dubbio (indubbio retaggio della mia formazione filosofica) mi sono chiesto se questa veemenza avesse un senso dal punto di vista tattico in uno scontro. Gettarsi a capofitto “contro” mi sembrava un modo poco efficiente per “sentire” le aperture dell’altro e agire un controllo sul suo centro.
Alla fine della lezione ho esposto i miei dubbi a Sensei (sono il peggiore degli allievi possibili, un vero rompiscatole!) e gentilmente lui si è preso del tempo per spiegarmi che “tutto dipende da che tipo di attacco viene richiesto”, intendendo, immagino, che per poter esprimere un certo tipo di lavoro è necessario che Uke si dia completamente nell’attacco. Questo al fine di poter “addestrare” il corpo e la mente ad una particolare qualità della pratica.
Sensei ha infine concluso facendo una distinzione tra forza e intenzione/direzione e dicendomi che ad un livello di maggiore sensibilità sono queste ultime due ad essere fondamentali. Ho pensato che quindi la prima, la forza (e la veemenza) costituisse un modo per cominciare a sentire questo lavoro più “sottile”, cominciando come sempre dal corpo nella sua grossolana fisicità e dalle forze più “esterne” che gli sono proprie e che sono più facilmente accessibili per un principiante (e in un certo senso lo siamo sempre tutti).
La cosa mi ha risuonato (come spesso accade quando Sensei mi spiazza dandomi una indicazione che sembra andare contro corrente rispetto alla mia esperienza) e, essendo un topo da studio, mi sono messo alla ricerca memore di alcuni concetti che avevo sentito esprimere da altri maestri anni prima.
Saltando tutti i passaggi che mi hanno portato alle conclusioni che tra breve esporrò, i due concetti cardine relativi a quanto Roberto Martucci Sensei stava cercando di farmi arrivare sono Sutemi e Zanshin.
Sutemi significa ”sacrificio”, letteralmente “gettare via il seme”. La parola proviene da un antico poema nel quale si parla di un seme di ippocastano che viene trascinato dalla corrente di un fiume. Se il seme resterà intero inevitabilmente affonderà. Se invece il guscio si separerà dal nocciolo allora riuscirà a galleggiare con la corrente. Il senso è che per sopravvivere, per avere una possibilità di sopravvivere e galleggiare invece che essere trascinati a fondo, bisogna sacrificare la parte più centrale di noi stessi. Nel Budo questo significa impegnarsi in un attacco con il massimo delle proprie energie e possibilità, senza curarsi delle conseguenze. Il contrario di sutemi è shishin, la mente pre-occupata. Questo stato mentale impedisce la possibilità di muovere il corpo liberamente, di essere unificati internamente nell’azione.
La mia domanda, il mio dubbio comunque restava in piedi: “non significa questo, forse, perdere l’occasione di essere presenti durante l’attacco? Questa veemenza non ci porta ad essere vulnerabili e inconsapevoli?”
La risposta è sì e no insieme. Sì se la nostra pratica resta ancorata solo all’aspetto più materiale dell’attacco. No, e qui l’Aiki mostra la sua incredibile bellezza e profondità, se il nostro lavoro da esterno diventa interno.
In alcuni testi antichi sul Budo troviamo l’affermazione “Zanshin è la conseguenza di sutemi” Zanshin è una parola difficilmente traducibile, possiamo usare “presenza” o “attenzione continua”. In effetti il senso è “lo spirito/la mente che resta”. Ma resta in che senso? Per anni ho pensato significasse resta stabile, ovvero resta presente anche alla fine dell’azione. Avete mai visto tirare con l’arco? Quella tensione immobile e presente che percepite nell’arciere anche quando la freccia è scoccata e ha raggiunto il bersaglio: quello è zanshin.
Ma c’è di più: Zanshin può accadere solo se facciamo sutemi, ovvero se ci impegniamo al cento per cento nell’attacco, senza lasciare nulla indietro.
E’ come avere una tazza piena d’acqua e svuotarla con una unica e decisa frustata della mano. Guardando dentro la tazza ci sarà ancora qualche goccia d’acqua: quello è zanshin!
Quella presenza nel vuoto dell’energia completamente espressa è fondamentale per poter essere reattivi e poter rispondere e adattarsi dopo aver attaccato. Quando la tazza è vuota allora possiamo permettere all’azione dell’altro di entrare e sentirla con zanshin, adattarci e rispondere (magari prendendo ukemi o facendo kaeshi-waza). Ma se attaccheremo a metà, senza sacrificio, senza sutemi, allora saremo ancora ingombrati dalla nostra intenzione. Saremo occupati e quindi non ricettivi. Allora saremo esposti veramente. Saremo morti.
Se rimarremo rilassati durante l’attacco, esprimeremo tutta la nostra energia abbandonandoci nell’attacco, potremo muoverci in modo naturale e trovarci in una condizione di consapevolezza alla fine dell’attacco. Allora potremo addestrare zanshin e rispondere in modo intelligente a quanto l’altro farà. E questo è l’unico modo per raggiungere questo stato mentale. Tutto il resto è una coreografia che scimmiotta l’esperienza. Per raggiungere zanshin bisogna passare attraverso il sacrificio, attraverso sutemi.
Il mio dubbio si è sciolto, le parole del mio maestro mi hanno indirizzato nella ricerca e grazie al suo continuo spiazzarmi ho potuto riflettere più a fondo, ridiscutere il conosciuto e non fermarmi alle apparenze. Come sempre l’Aiki ci chiede di morire a noi stessi per progredire, tanto sul tatami quanto nella nostra mente.
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