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La gentilezza dei samurai

  • Paolo Narciso
  • 26 nov 2018
  • Tempo di lettura: 3 min

Esperienze di viaggio nella terra del Sol Levante




Kyoto, usciamo da un albergo super elettronico nel quale non abbiamo incontrato nessuno. Registrazione online, tablet all'ingresso per conferma, serrature elettroniche a codice e guida in pdf sui servizi ( aria condizionata, lavatrice, cucina, immancabile tavoletta del bagno hi tech...etc.) dettagliata come le istruzioni di montaggio di un satellite Nasa per la georilevazione. Non ve la posto per brevità.. ma me la sono conservata come esempio della nipponica efficienza. Verrebbe da dire che tutto questo è disumanizzante. Facile pensiero di una mente abituata ai paradigmi dell'Occidente. Ecco la storia. Usciamo, dicevo, con tutte le valigie e, non essendoci nessuno in reception (solo il tablet, ovviamente accessibile dalla strada e appoggiato lì...a Roma durerebbe dai 30 ai 60 secondi) ci troviamo in difficoltà perché siamo in una stradina secondaria, piove a dirotto e non abbiamo modo di chiamare un taxi per raggiungere il nuovo hotel. Qui viaggiamo solo con Whatsapp, una telefonata costa come un mutuo sulla prima casa più imposte di registro notarili per la compravendita della suddetta. E anche volendo fare i nababbi non abbiano idea di come dire che ci serve un taxi. E anche trovando la traduzione con Google translator non sapremmo mai dire dove ci troviamo di preciso, visto che qui non si usano i numeri civici e se non hai gli occhi a mandorla per trovare un posto devi ricorrere alla divinazione attraverso l'osservazione del volo degli uccelli.

Insomma, passa un tipo per strada con in mano qualcosa che assomiglia ad uno specchio di Ikea.

Mi do lo slancio e attraverso la fitta pioggia, lo raggiungo: "Sumimasen!" gli urlo praticamente genuflettendomi tipo udienza papale. Si ferma con aria interrogativa, gli spiego la situazione e gli porgo un biglietto raccolto su uno degli innumerevoli taxi presi i giorni prima. Lui sorride e mi dice " ok, come with me! My company!" All'inizio ho pensato di aver avuto il gran culo di aver beccato il proprietario di una compagnia di taxi. Afferriamo le valigie mentre lui apre un telefono di quelli "a capasanta", tipo lo star tac di una volta: sì qui lo usano ancora, mah! Sarà per via della forma a tavoletta del bagno... Svoltiamo l'angolo e lui ci indica uno spiazzo coperto davanti ad un ufficio: "Frank electric engenieering". Evidentemente non è il proprietario di una compagnia di taxi. Ci dice "Wait here please, taxi come!" Poi fa un cenno a due operai che stanno lavorando nel magazzino alle nostre spalle, si inchina e scompare di gran fretta senza neanche darci il tempo di ringraziarlo per poi riapparire dopo un attimo a bordo di un Suv bianco Toyota, mai visto in Italia. Ci passa davanti e si inchina da dentro la macchina sorridendo.

Piove che Buddha la manda e, anche se siamo al coperto, qualche schizzo d'acqua ci raggiunge lo stesso. Un po' bagnati e un po' no aspettiamo in rigoroso silenzio l'arrivo del fantomatico trasporto. Alle nostre spalle i due giapponesi che stanno nel magazzino fanno finta di nulla e continuano a lavorare. Parlano tra loro e ogni tanto ridono. Immagino che forse la situazione sia buffa per loro: due occidentali muniti di valigie, vagamente persi.

Siamo appoggiati ad una scala di ferro che porta agli uffici che si trovano al piano di sopra e fanno da tetto al magazzino.

Ed è a questo punto che compare lei. Una giovane ragazza giapponese. Scende le scale, ci porge un asciugamanino bianco ben piegato. Ce lo offre con due mani e ci fa un cenno. Non siamo così bagnati ma la cosa ci prende in contropiede. Ci asciughiamo un po' la testa, i capelli, le braccia. Lei è sicuramente una impiegata che stava lavorando al piano di sopra e ha visto la scena del nostro arrivo. Apre un ombrello, nel mentre il taxi appare in fondo alla strada. Ci accompagna alla portiera e ci tiene l'ombrello sulla testa, bagnandosi lei. Lo tiene lì finché non abbiamo caricato i bagagli, finché non siamo entrati nella macchina. Non sappiamo che dire, ci mancano le parole. Siamo allibiti. In fondo non siamo che due stranieri, due perfetti estranei. La portiera si chiude e, nel mentre, i due operai si sono affiancati alla giovane donna. Non ci ignoravano affatto, volevano solo non metterci in imbarazzo. Il taxi si muove, loro si inchinano. Due, tre volte. Riesco solo ad aprire il finestrino e gridare "Graziee!" mentre mi arrivano sul volto gocce di pioggia che potrebbero benissimo sostituire una lacrima di commossa emozione. Grazie, davvero.

 
 
 

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