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Paolo Narciso

SHISEI, KAMAE E KOKYU

Aggiornamento: 26 nov 2018

L’ARTE DELLA PACE COMINCIA PRIMA DI QUANTO PENSIAMO.


Durante i miei studi di filosofia e psicologia molte cose mi sono sembrate intimamente legate all’Aikido. Molte volte sono rimasto sconcertato nel vedere affiorare in modo tanto evidente quanto

naturale e razionale relazioni tra l'etica presentata da certi filosofi e i principi della “Via”, tra le affermazioni di Hegel sullo Spirito Assoluto e la mistica di O-Sensei. Spesso ho speso ore a leggere e rileggere passi dei testi dei grandi pensatori del passato e a confrontarli con l'esperienza dell'Aikido, a intessere paralleli tra il concetto greco di “pneuma” e quello di e di “kokyu”.

Tuttavia un sano spirito cartesiano mi ha sempre tormentato in ogni riflessione spingendomi acercare qualcosa che giustificasse sia questi rocamboleschi accostamenti che la presunta validità universale della pratica, adatta a chiunque a prescindere dalla razza, dalla religione, dal sesso o dal livello di istruzione. Una base prima, un assioma certo da cui far partire una riflessione.

Una frase di Watzlawick mi ha aperto la strada facendomi vedere le cose da una prospettiva diversa: “Non si può non comunicare”. L'uomo comunica costantemente, comunica verbalmente e non, con il silenzio, mentre dorme, continuamente viene interpretato da chi lo osserva o lo ascolta.

Filosoficamente potremmo dire che l’essere nel mondo non è mai disgiunto dal comunicare e la comunicazione non è un fatto accidentale o occasionale ma permanentemente legato all'esistenza. Il comportamento comunica costantemente e tra essere e comportamento non v'è distinzione. Sempre

Watzlawick ne “La Pragmatica della comunicazione umana” rileva che “il comportamento non ha un suo opposto”, non esiste un qualcosa che sia definibile come un non-comportamento o un momento in cui l'individuo abbia un non-comportamento.

Queste affermazioni valgono per tutti gli esseri viventi e, con maggior forza, per tutti gli esseri umani, i quali sono dotati di sistemi rappresentazionali e di comunicazione assai più complessi e completi degli altri animali (anzi si potrebbe dire che, dopo il pollice opponibile sia questa la caratteristica che “fa la differenza”). Tuttavia quando pensiamo alla comunicazione, l'espressione più immediata che ci viene in mente è la comunicazione verbale. Gli studi sulla comunicazione in ambito psicologico e sociologico ci insegnano, invece, che solo una piccolissima parte della comunicazione si esplica attraverso la parola e che più dell'80% di essa avviene attraverso canali e modelli non verbali.

Nella comunicazione verbale il flusso del parlare attraverso il tempo è composto da una sequenza di unità sintattiche formate da subunità chiamate frasi. Le frasi sono a loro volta formate da subunità chiamate parole, ciascuna parola è composta da una sequenza di morfemi e ciascun morfema da una sequenza di fonemi particolari. La posizione della testa, delle spalle, degli occhi, delle mani, sono segni attraverso i quali esprimiamo contenuti sia in appoggio ad espressioni verbali sia in modo autonomo.

Tutto il corpo collabora alla comunicazione e, così come possiamo identificare le unità che costituiscono il flusso significativo della comunicazione verbale, altrettanto possiamo fare per quello che riguarda i modelli di comunicazione non verbale. Tutto il comportamento è strutturato in questo modo: possiamo identificare unità distinte e reali del comportamento e determinarne i livelli gerarchici che si integrano per costruire una più grande unità significativa così come le unità linguistiche si integrano per costruire una frase.

Gli studi di psicologia sulla comunicazione e quelli di prossemica sulle distanza significativa tra gli individui ci dicono con forza di prove che il solo stare di fronte ad un altro comunica una serie di significati complessi che passano attraverso indicatori specifici quali, appunto, la distanza e la posizione (Ma-ai e Shisei).

Una serie di atteggiamenti collaborano a specializzare il messaggio: la posizione delle mani, la direzione e l'intensità dello sguardo, la tensione delle spalle etc.

L”insieme di tutte queste specificità corporee costituisce l’unità significativa fondamentale della comunicazione non verbale: la postura.

Albert Scheflen, pioniere della ricerca sociosomatica, definisce la postura: "unità comunicativa complessa che comporta una sequenza di unità simultanee di attività". Più semplicemente, la posizione nel suo intero comunica una serie di informazioni attraverso l'attività delle subunità che la compongono, ovvero orientamento del corpo o di parti di esso (testa, gambe, occhi, tronco), posizione e attività delle mani, posizione delle spalle, etc. L'intero corpo viene impiegato in un complesso di attività orientative e comunicative.

La posizione "comunica l'intenzione" di mettere in atto dei comportamenti, siano essi azioni o comunicazioni. Una posizione viene assunta e mantenuta mentre e per tutto il tempo durante il quale una certa attività viene eseguita. Quando tutte le attività comprese nella posizione sono state completate il soggetto assumerà un altro orientamento.

Vale la pena a questo punto fare alcune precisazioni e qualche collegamento. Nella normale attività comunicativa, gli studi di psicologia che si occupano del comportamento hanno rilevato che le persone mantengono in modo inconsapevole la stessa posizione durante tutto il tempo per il quale esprimono la medesima unità concettuale. Ad esempio se una unità concettuale è cominciata con il gesto di cadenzare le parole con una mano, questo gesto verrà mantenuto fino al momento in cui tutto il contenuto verrà espresso (ciò è vero anche se chi parla viene interrotto. Quando riprenderà ad esporre il contenuto della unità concettuale riprenderà lo stesso gesto).

Questa aderenza della medesima posizione alla unità concettuale espressa è un fatto, come ho già detto, inconscio. Tuttavia si è rilevata una tale congruenza tra posizione e comunicazione verbaleanche per quanto riguarda classi di unità concettuali.

Ad esempio Schelfen ha dimostrato che se silega in modo solido alla frase "immagina un vaso" un gesto delle mani che disegna idealmente una coppa (mani a conca con le palme rivolte verso l'alto ed un leggero movimento a semicerchio in su), tale gesto verrà ripetuto in ogni occasione in cui l'attività dell'immaginare è coinvolta, a prescindere dal contenuto.

Questo significa che se mentalmente leghiamo ad un movimento una attività cognitiva o una idea,

quell’attività avverrà in modo automatico ed inconscio ogni volta che faremo quel dato movimento

Una tecnica di Aikido può essere vista come una unità significativa, composta da molte subunità. Le subunità possono essere identificate nelle posizioni che si susseguono e costruiscono la tecnica. Ogni posizione, a sua volta può essere scomposta in una serie di subunità radice od originarie (microcomportamenti) che sono costituiti dalla postura delle mani, dei piedi, dalla direzione dello sguardo, dalla posizione del corpo, ecc.

A ben guardare, la prima cosa che si studia quando si comincia a praticare Aikido sono proprio queste subunità originarie (Shisei, Kamae) e, prima tra tutte, la "posizione naturale del corpo" (Shizentai).

Vale la pena ricordare a questo punto che la posizione è comunicazione e quindi comportamento. Il solo stare dritti in piedi coinvolge tutta una serie di messaggi che derivano dalla tensione del tono muscolare, dallo sguardo

dalla posizione del peso, etc.

Tutte queste variabili possono essere modulate per trasmettere un messaggio: aggressività, calma o addirittura soggezione vengono immediatamente suggeriti a chi ci sta di fronte causando, immediatamente, una serie di reazioni psicologiche.

Il nostro comportamento produce, dunque, messaggi ai quali verrà data risposta dal comportamento di chi ci sta davanti: controllare i messaggi che mandiamo significa quindi controllare le reazioni degli altri o, per dirla in termini aikidoistici prendere il Ki dell’altro.

Possiamo provocarli, intimorirli o placarli. Nulla di particolarmente nuovo sotto il sole, si potrebbe pensare. Ma cosa accade in noi se al nostro kamae e al nostro shisei leghiamo l’attività mentale del pieno rilassamento e della non competizione?

Questa è una ipotesi per tentare di spiegare da un’altra prospettiva perché in Aikido non si utilizzano guardie aggressive, perché lo sguardo deve restare rilassato e attraversare l’altro mantenendo il fuoco dell’attenzione diffuso, perché è importante mantenere una postura distesa, eretta e naturale.

Stiamo evidentemente comunicando, e il nostro messaggio è: “non sono un nemico, non sei il mio nemico”. E se questa idea si lega profondamente a questi elementi posturali anche sotto lo stress e la concitazione dell’attacco o degli attacchi la nostra mente produrrà l’unità significativa : “non sono il nemico, non sei il mio nemico”. Uno spazio di pace in noi che diventa una naturale disposizione coltivata attraverso l’unità mente corpo. Un messaggio che può ancorarsi profondamente solo attraverso uno studio profondo e attento della postura e la consapevolezza delle emozioni che proviamo quando assumiamo un determinato kamae.

Entra qui in gioco il terzo elemento del trittico di base, l’ultima submodalità originaria che fonda ogni ulteriore progresso nell’Aiki: il kokyu, il respiro.

La respirazione è notoriamente legata alle emozioni e da esse alterata. A sua volta ha la capacità di influenzare le emozioni e di alterarle. Aumenta in frequenza e si accorcia in lunghezza quando le emozioni si eccitano e diminuisce e si approfondisce quando si calmano. Attraverso la consapevolezza del respiro possiamo essere consapevoli delle nostre emozioni. Così shisei, kamae e kokyu chiudono un cerchio ideale. Attraverso il respiro coltiviamo emozioni non distruttive, attraverso la postura le ancoriamo alla nostra psiche e attraverso il kamae le proponiamo al mondo, ovvero all’altro. Quando questo circolo diventa virtuoso e ben consapevolizzato il solo prendere la postura produrrà pace in noi, proporrà pace all’altro e creerà le basi per l’Aiki.

Paolo Narciso

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